Ritorno

19 Lug

Quanto tempo che non mettevo piede qui, nel mio nido. In questo posto che avevo costruito a misura del mio dolore. Dove la speranza si affacciava così di rado, in slanci che dopo poco cadevano abbattuti come cacciagione nella stagione più calda. Quella bastarda di bracconiera che è la vita ci ha provato in tutti i modi a farmi fuori. Non c’è riuscita. Ha smorzato i miei entusiasmi e io me ne sono creata di nuovi. Ha sepolto i miei amori e sono riuscita a smettere di piangere su quelle tombe. Ha cancellato i miei sogni e io ne ho disegnati altri. E li ho colorati. E ci ho creduto. Sempre.

Negli ultimi due anni non ho fatto che costruire. Costruire per il mio futuro, il mio lavoro, i miei progetti.  E ho ceduto alla più vana delle illusioni: l’amore. Pietra dopo pietra ho innalzato una torre senza guardare indietro, senza guardare giù. E solo ora mi accorgo che è una torre fragile, senza una scala per scendere, ma troppo alta per farla crescere ancora. In pochi giorni sta mostrando tutta la sua incertezza.

Anni, avevo impiegato anni per distruggere la fortezza che mi proteggeva solo per ritrovarmi prigioniera di altre pietre, altre mura. Rovine. I cocci di un passato che non è nemmeno il mio, ma ha invaso il mio giardino spegnendone ogni sfumatura. E spegnendo me. Perché so cosa succederà, è un copione già scritto, già visto, già vissuto. Il copione dell’animale braccato che sa di doversi nascondere. Aspettare che il pericolo passi nell’immobilità del letargo. E quindi mi spengo, mi metto in stand by. Non ho voglia di fare la guerriera, di cacciare le unghie, i denti e la voce grossa. Rinuncerò alle illusioni, ai sorrisi e alla spontaneità e se questo vorrà dire essere meno me stessa o non esserlo per niente rinuncerò anche a me.

Mi richiudo nel nido. Tra queste parole che oggi pesano più di ieri, che continuano a vorticarmi nella testa urlando «non è cambiato niente», e forse è vero, ma c’è tanta gente che vive bene nell’immobilità.

Ci farò l’abitudine anche io.

Gotico 2011

23 Mag

Per anni ho vissuto ogni giorno della mia vita ripetendomi Laura sei forte. Sono riuscita a farlo credere a me stessa e al mondo intero. Un mondo di illusioni resistenti come la roccia. Poi ho smesso, ho creduto che abbandonati al Tartaro i miei demoni, quella forza non mi servisse più. Cos’altro poteva farmi male?

Stanotte so darmi una risposta. È la vita che fa male. Le cose che non possiamo capire o controllare. Quelle che non abbiamo deciso noi ma lo stesso ci chiedono ospitalità, e noi le accogliamo pensando che siano innocue.
Se non avessi abbassato le mie difese adesso non dovrei fare i conti con questo buco nero che si chiama futuro ma puzza fin troppo di passato. Tutte le mie insicurezze tutte le mie paure sono ancora qui. Qui dove sono state per anni. Pungenti allo stesso modo. E i visi si sovrappongono e si confondono e io non so più chi è il buono e chi il cattivo, l’amato o il carnefice, e se i difetti che mi hanno già uccisa sono gli stessi che adesso mi colmano di rabbia.

La cosa peggiore? Che la rabbia non è mai verso il mondo. È con me che devo fare i conti, col mio accorgermi della realtà sempre un attimo dopo esserne diventata schiava.

La Laura che non impara mai. La Laura che può solo sperare che sia diverso. La Laura che apre gli occhi e si ritrova davanti un mondo immobile. Come riverniciare le pareti di una stanza, non cambia molto se non l’impressione che sia diversa. Ancor più se è una stanza senza finestre. Una stanza dalla quale non si può scappare.

Lascio cadere la testa sul cuscino. So già che sarà un sonno dal respiro spezzato.

Feste fa rima con peste 2010

16 Dic

nataleCi sono lacrime che arrivano senza ragione. Anche quando il cuore dice che va tutto bene.
Ci sono lacrime che pulsano come le luci intermittenti che adornano le strade e tu capisci che è Natale ma non riesci a gioire per questo. E ti senti fuori luogo tra le corse ai doni, i sorrisi dispensati a profusione, le feste, i brindisi e tutti che ridono, tutti che parlano, saluti e baci e all’anno prossimo, mentre tu hai solo quelle lacrime che spingono e vuoi nascondere, nausea per il delirio diffuso che ti si agita intorno, una frenesia festosa che ti rimbalza addosso senza scaldarti dentro.
Pensi che forse sei tu a essere sbagliata e non il mondo, e che sei fortunata ad aver trovato chi sa amarti per quella che sei. Ma poi ti chiedi se chi ti ama lo fa solo perchè conosce la gioia nei tuoi occhi ma non ne ha ancora visto le ombre. E non sai darti altra risposta che la speranza.
Ma in fondo anche tu, le persone, le hai mai capite? E loro hanno mai capito te? Quante volte hai pianto in silenzio da sola perchè nessuno riusciva a coccolare le tue debolezze. Forte Laura, devi essere forte, ti ripetevi ma dentro desideravi solo abbarcci che non arrivavano mai, ti drogavi di tenacia per inseguire illusioni inutili come vapore e nel mentre coltivavi sorrisi e consigli per chi la tua forza non l’aveva. Stupida, illusa che non sei altra. Tu che disprezzi il Natale, quando tutti sono più buoni. Ah sì? stupida ancora! tu che di questa inutile bontà hai fatto una delle tue regole di vita. ILLUSA sì, a credere che se fai del bene ricevi bene quando il mondo intorno a te è vestito a festa ma trasuda malizia e sguardi ipocriti.

E poi mi si chiede perchè odio il Natale. Semplice, perchè nel mio vocabolario feste fa rima con peste.

Lui dorme

11 Dic

Lui dorme. L’ho capito perché il suo respiro s’è fatto rumoroso. Lo guardo. Se sapesse che sto scrivendo di lui, conoscendolo, non riposerebbe così beato. Gli farei un ritratto se ne fossi capace, se sapessi padroneggiare l’arte del colore e dei pennelli. No, non so farlo ma ho le mie parole. E occhi che vedono.

Ora che il sonno è profondo posso disegnare con le dita i contorni del suo viso. Parto dalla tempia, lì dove il mal di testa ha lasciato posto alla stanchezza e poi al sonno. Scendo giù per gli zigomi seguendo la zona d’ombra che la barba traccia sul volto. Nera. Dura. Ispida. Cartavetrata, come la prima volta che ho poggiato le mie labbra sulle sue. Cullata dal ricordo passo i polpastrelli sulla sua bocca. Lo sente, apre gli occhi. È un attimo, li richiude.

Sono passati due mesi. E in questo tempo la vita si è ritagliata intorno a noi prendendo una nuova forma. È come se lui ci fosse sempre stato in questa stanza, a dormire su questo letto, mormorare ogni tanto e poi girarsi dall’altro lato, mentre io continuo a guardarlo. Dalla giusta distanza per non perdere nulla. E per non perdere nulla scrivo. Perchè lui merita di esserci e di restare per sempre.

Oddio, per sempre… chi ci pensava più che esistesse un tempo così lungo, così enorme rispetto all’ora e adesso in cui ho cercato di forzarmi per sfuggire agli inganni del tempo. E chi pensava che potesse ancora esistere qualcuno in grado di farmi tornare la voglia di crederci. E invece eccolo qui, ricci scomposti addormentati sul mio cuscino.

Prospettiva

23 Nov

– Lo ami?
– Sì.
– E come fai ad esserne certa?
– Lo sento.
– Lo senti?
– Sì.
– E cosa senti?
– Serenità.
– Serenità? Ma che risposta è mai questa! Chi ama sente il nodo allo stomaco, il soffio al cuore, i nervi a fior di pelle, la mente in subbuglio. Piange, freme, urla, si strugge. Che razza d’amore può mai essere assimilato alla serenità?!
– QUELLO VERO.

Immagine di  KRISTIN BØILESTAD PHOTOGRAPHY & ART

La fatina

7 Nov

Nei suoi ricordi di bambina erano fiori carnosi rinchiusi in scatole di cartone con una finestrella trasparente. Il gambo reciso immerso in una fiala di vetro ricoperta di carta colorata. Le sembravano fatine imprigionate in quella gabbia di colori tenui. Non sapeva coglierne la bellezza o l’armonia ma lo stesso quando ne vedeva una sul tavolo del soggiorno, sentiva il cuore scoppiare. Il viaggio era finito e il suo papi era tornato. Rimaneva un attimo sulla porta della stanza a guardare l’orchidea immobile sul piano d’ebano, poi correva sulle gambette di bimba e raggiungeva il suo regalo. Se la scatola nel quale era racchiuso diventava uno scrigno prezioso, il contenuto lo era ancora di più. Quell’unico fiore che si affacciava dal suo davanzale di plastica non era soltanto un gesto d’amore. Era il saldo di un pegno. Il mantenimento di una promessa.

“Torno presto piccola mia, starò via solo pochi giorni” e poi spariva, dietro la porta pesante, col suo cappotto che sapeva di naftalina e la scia pungente di quel dopobarba che lei gli regalava puntualmente per ogni festa del papà.

Lo seguiva con le pupille lucide e, quando la porta si richiudeva dietro di lui, correva allo specchio per controllare il colore dei suoi occhi. Verdi, quando piangeva i suoi occhi erano verdi. Solo in quel caso le nocciole si trasformavano in foglie, e mantenevano quella sfumatura di bosco quando si sedeva mesta a fare colazione, preparava lo zaino per andare a scuola, prendeva il bus senza mai trovare un posto a sedere, tornava a casa e faceva i compiti. Uno, due, dieci giorni, finché una mattina si svegliava e sul tavolo del soggiorno trovava il regalo tanto atteso. Sapeva che lui era tornato, anche se non lo vedeva. Ne sentiva l’odore e, se tendeva l’orecchio, percepiva nell’aria la vibrazione del suo sonno pesante.

La prima cosa che faceva era sedersi al tavolo, con le unghie rosicchiate tirava via lo scotch trasparente che sigillava la scatola, poi con una delicatezza insolita per una bimba così piccola, liberava la sua fatina dalla prigione di cartone. La poggiava sul tavolo e la guardava. Cinque petali carnosi cingevano quello che sembrava il becco di un uccello tropicale. Gli ricordava i pappagalli che aveva visto a casa della sua compagnetta Clara.

Ecco cosa rendeva le sue orchidee così speciali e diverse da qualsiasi altro fiore: erano vive. Avevano bocca e occhi nascosti tra la corolla sfavillante.

Se ci passava sopra un dito la solleticavano come fossero di velluto. Un velluto puntellato di minuscole sporgenze. Lingue violacee costellate di papille sensibili. Se poi spingeva il dito dentro la bocca della fatina, una colla trasparente si mescolava a polline giallo rimanendole sul polpastrello. Aveva un odore strano quell’intruglio, dolce e pungente allo stesso tempo, vaniglia e  pepe nero. Una saliva profumata che asciugava distratta sul pigiama.

A lei piaceva guardarle, esplorarle, la curiosità della bimba riusciva a scoprire in ogni singolo, unico fiore, un aspetto sempre diverso, una sfumatura appena accennata che la volta prima non c’era. Erano cose che un adulto non avrebbe mai notato, lei invece sì, riusciva a individuare le impercettibili virate di colore. Più rosso, più viola, quasi candido, rosato. C’era anche del giallo a volte e ne ricordava una nella quale le venature tendevano persino al blu.

La prima volta che ne aveva ricevuta una avrà avuto cinque anni, e no, non le aveva mai contate. Quando tuo padre fa il pilota su voli intercontinentali, le partenze sono davvero troppe per tenerle a mente una per una. Le bastava sapere che ogni volta che una porta si chiudeva era solo questione di tempo, la fatina sarebbe tornata e l’avrebbe aspettata al risveglio sul tavolo del soggiorno.

 

Ali Nuove

28 Ott

Lo guarda andar via poggiata allo stipite della porta. Con l’espressione trasognata che il piacere le ha incollato agli occhi. Prima di entrare nell’ascensore lo vede voltarsi. Un ultimo bacio.

“Sei bellissima”.

È bellissima? No, non crede. Non credeva. Ma da quando c’è lui tutto è possibile. Anche sentirsi sensuale nel suo corpo imperfetto, anche sentirsi  una Venere  quando lo invita tra le lenzuola.

Rimane lì, immobile, ancora qualche attimo, con la sua camiciola da notte color ciliegia e quelle calze nere che le arrivano sopra al ginocchio. Chiude la porta e si trascina sul letto. Abbraccia il cuscino e si accorge che lui ha dimenticato lì il suo odore.

Ha le ali. Ali nuove. Nessuna traccia dei suoi demoni e del suo passato gotico. Solo luce. Una forza che non sa spiegare ha spazzato via tutto il resto. E adesso vola. In questa vita che ha un sapore di sogno.  Zucchero filato e baci senza fine. E la sua mano ne ha sempre un’altra da stringere. Una mano che, come la sua, conosce le parole e sa come vincerle. C’è lui adesso. In ogni cosa, in ogni pensiero. E i suoi  sono occhi di fuoco, ma non sono occhi di demone.  Le promesse che porta hanno la consistenza del mondo e non quella dell’aria.

Respira piano, il sonno la vince, si addormenta. Nemmeno Morfeo ha braccia dolci quanto quelle del suo Aguzzino.

Leda sul fuoco

17 Ott

Leda aveva in sé tutte le donne che un uomo poteva desiderare. Ne era consapevole, per questo le piaceva giocare con quella sorta di trasformismo che il destino le aveva incollato addosso. Accendeva la sua webcam e, scrutata da un occhio anonimo, diventava una strega, una fata o una domatrice di leoni. Quel giorno si preparava a essere una timida segretaria.

Aveva lasciato scivolare giù dal corpo il minuscolo telo nel quale ara solita avvolgersi dopo la doccia e iniziava a sistemarsi con l’attenta, minuziosa perizia che da sempre dedicava a quei preparativi. Lo faceva con lentezza, assaporando uno per uno gli strati di tessuto che si posavano leggeri sul suo corpo: la trama geometrica delle calze a rete, la seta sottile della biancheria rossa che si lasciava intravedere dalla giacca sagomata. Mentre lo faceva si guardava allo specchio. Aveva bisogno della conferma costante di essere perfetta, e continuava ad ammirarsi e sorridere, compiaciuta, distante anni luce dalla goffa verginella che riposava in pace tra le pagine abbandonate dei suoi ricordi.

La Leda che stava a fissarla in quel riflesso, era una donna che non aveva nulla da chiedere, nessun desiderio ma solo l’ansia della soddisfazione e, la cosa che voleva soddisfare più di tutte, era il suo piacere. Se si fosse concessa a chiunque – pensava – nessuno l’avrebbe più avuta.

Coccolandosi in quel pensiero continuava quella che per lei era una sorta di prova generale. Senza nemmeno accorgersene, aveva lasciato scivolare una mano tra le sue cosce. Lo specchio le restituiva un’espressione birichina e invitante. Indugiò per un attimo sul suo ventre, indecisa sul da farsi, chiedendosi quanto egoismo ci fosse in quel desiderio solo suo, da non condividere con nessun’altro quando invece c’era un mondo intero che, in quel preciso momento, avrebbe voluto spiare nella sua stanza. In un eccesso di magnanima filantropia aveva tirato fuori la mano dal perizoma color fragola, poi aveva alzato il braccio portando la mano dietro la nuca, la testa piegata di lato fino a poggiarsi nell’incavo del gomito. Accarezzando il collo era risalita a sfilare la penna che le teneva alzati i lunghi capelli di pece. In un attimo una scura macchia di petrolio, si era sparsa fluida a incorniciarle il volto, le labbra socchiuse e ansimanti preannunciavano già desiderio. Stessa sorte della penna, era toccata agli occhiali: un volo all’indietro fino a ricadere sul letto poco distante e confondersi tra le lenzuola rosa. Adesso i suoi occhi erano due gemme di ghiaccio fisse sullo specchio.

Gli occhi di Leda. Erano sempre stati meraviglia. Un mistero di sfumature che ne rivelavano, in ogni momento, lo stato d’animo. L’azzurro poteva schiarirsi fino a diventare ghiaccio o incupirsi fino a essere mare. Talvolta capitava che nascondessero tempesta. Grigio cupo. Liquidi come metallo colato. L’unico punto immobile di un corpo che invece continuava a muoversi ritmicamente seguendo il pensiero di una macabra filastrocca:

Nella tana del lupo non andare è un posto cupo,

Nella tana del leone c’è un tuo amico a colazione,

Nella tana dell’orso non avrai nessun soccorso,

Resta a giocare con la strega quel che promette lei non nega.

E la strega pregustava già il sapore di quel gioco ammaliante. Non restava che scoprire chi sarebbe stata, quel giorno, la sua vittima. Non ci sarebbe voluto molto. Dieci minuti erano il tempo medio che un uomo impiegava per smettere di essere umano e diventare un animale. Poi, iniziava il divertimento.

Solo un bacio

10 Ott

Carta vetrata, in quel bacio inatteso. In quel virus irritante per la bocca ma delicato sulla schiena. Una pialla sul cuore, mentre la sua lingua limava tutte le asperità che, per troppo tempo, ne avevano cinto il petto.

Erano alti i torrioni che stavano a proteggere quel buco nero che la gente si ostina a chiamare amore. L’aveva costruita lei quella fortezza, e si era sigillata dentro. Cavalieri dalla menzogna facile ed eserciti di uomini medi, erano arrivati, nel tempo, per provare a espugnarla. Ma la magia del dolore e il cancro del ricordo erano riusciti a tenerli a distanza.

E adesso c’era lui, con la sua lima di precisione. Carta vetrata umida che sapeva di birra, mojito e poi ancora birra. Si insinuava tra le sue labbra e radeva al suolo tutto quello che c’era stato prima. In quel bacio che durava da un attimo o, forse, da un secolo, lei stava dimenticando chi era.

Paura. Lui la stringeva nelle sue promesse e lei aveva paura. Paura che quelle mani riuscissero ad afferrarle l’anima, e no, lì non gli avrebbe mai permesso di arrivare. E allora lo guardava.

Dalle terrazze dei suoi occhi sgranati poteva distinguere fiumi di capillari sottili scorrere su quelle palpebre che riusciva quasi ad accarezzare con le ciglia. Capillari che pulsavano ingrossandosi fino a diventare vene e poi sangue e poi carne e ossa. Un intero corpo abbarbicato sul suo. Così vicino e stretto da essere a un passo dall’invadere l’oasi di sicurezza che era la sua prigione.

O forse no, forse la stringeva per proteggerla, forse anche lui sentiva la stessa paura, forse anche lui leggeva, nel sapore umido delle sue labbra, tutti i pensieri che le urlavano in gola.

Le era bastato quell’attimo, quella riflessione che portava in sé un senso profondo di pace. Sicurezza. Aveva richiuso gli occhi. La carta vetrata era diventata una mano di vernice. Odore pungente di un altro mondo.

Morgana non soffre il solletico

4 Ott

Le teneva in astucci di velluto. Quel genere di custodie a rotolo che i gioiellieri utilizzano per riporre bracciali e collier. Erano conservate ordinatamente, ognuna bloccata all’estremità inferiore da una linguetta di tessuto scamosciato chiusa da un piccolo bottone a clip. Di quegli astucci, ne aveva di varie grandezze e dimensioni. Alcuni poi li aveva fatti costruire su misura quando la sua collezione aveva iniziato a ospitare esemplari più grandi. Dentro ognuna di quelle custodie c’erano otto, dieci, anche dodici piume. In tutto ne aveva centoquarantasette. Alcune provenivano da specie assai rare, la coda di una cicogna nera, la cresta di un’upupa, l’ala di un Martin Pescatore; altre da parti del corpo diverse di uno stesso volatile. I contenitori erano tutti rossi. Tutti tranne uno, il più prezioso, fatto di pelle nera e lucida, non di velluto come tutti gli altri. Era da lì che era iniziata la sua collezione. Ancora oggi a distanza di sette anni si chiedeva se quella notte Vasiliy l’avesse dimenticato o l’avesse lasciato di proposito per ricordarle, il più a lungo possibile, quello che era successo.

Inizialmente aveva iniziato a raccoglierle per strada e nei parchi, poi era passata agli zoo dove con un po’ di fortuna riusciva a procurarsi qualche rarità. Quando il mondo che conosceva non aveva più molto da offrirle,  aveva iniziato a chiedere nei negozi di ornitologia e sul web. Spesso sognava viaggi in luoghi esotici alla ricerca di esemplari unici per la sua collezione, ma il suo animo pigro relegava quelle fantasie negli angoli più reconditi del suo essere. In fondo quello che le interessava era godersi il piacevole effetto che le sue piume potevano regalarle quando lasciava che le sfiorassero la pelle. Proprio come quella notte aveva fatto Vasiliy.

Era arrivato come una gelida folata di vento siberiano, quell’uomo dagli occhi di ghiaccio che sembravano nascondere tutta la profondità del Mar Caspio. Dieci giorni per concludere un affare nell’azienda dove Morgana lavorava come interprete. Quando al quinto Martini, durante un incontro informale per discutere la traduzione delle clausole di un contratto, lei si era lasciata scappare di non aver mai sofferto il solletico, gli occhi di lui avevano accolto quella rivelazione come una sfida.

L’indomani non avevano avuto tempo per il lavoro. Avevano passato tutto il giorno a fare l’amore. Poi lui aveva estratto il suo astuccio e per la prima volta Morgana aveva sentito sulla pelle il fastidioso pizzicore di quel contatto sfiorato.

E non importava che lui fosse sparito il giorno dopo, che fosse tornato senza un saluto al suo paese dove l’aspettavano una devota moglie russa e pargoli anemici. Quello che aveva fatto per Morgana era molto più che regalarle una intensa giornata di piacere. Le aveva insegnato a non aver paura delle proprie reazioni, delle proprie emozioni. Aveva disegnato sulla sua pelle volute invisibili di insopportabile desiderio. Desiderio che continuasse, che finisse, che fosse uguale ma anche diverso. Per questo motivo Morgana aveva continuato a cercare piume, a collezionarle come se fossero oggetti preziosi e, sempre per questo motivo, le conservava come gioielli e le catalogava, non tanto sulla base degli animali da cui provenivano ma seguendo le sensazioni che regalavano alla sua pelle, l’intensità dei brividi che le incollavano addosso.

Ognuna di quelle piume non era solo un oggetto da conservare, il resto ormai inanimato di qualcosa che era stato vita. In ognuna di quelle piume c’era la sua libertà e, quando le avvicinava al suo corpo, anche lei era capace di volare.