Quanto tempo che non mettevo piede qui, nel mio nido. In questo posto che avevo costruito a misura del mio dolore. Dove la speranza si affacciava così di rado, in slanci che dopo poco cadevano abbattuti come cacciagione nella stagione più calda. Quella bastarda di bracconiera che è la vita ci ha provato in tutti i modi a farmi fuori. Non c’è riuscita. Ha smorzato i miei entusiasmi e io me ne sono creata di nuovi. Ha sepolto i miei amori e sono riuscita a smettere di piangere su quelle tombe. Ha cancellato i miei sogni e io ne ho disegnati altri. E li ho colorati. E ci ho creduto. Sempre.
Negli ultimi due anni non ho fatto che costruire. Costruire per il mio futuro, il mio lavoro, i miei progetti. E ho ceduto alla più vana delle illusioni: l’amore. Pietra dopo pietra ho innalzato una torre senza guardare indietro, senza guardare giù. E solo ora mi accorgo che è una torre fragile, senza una scala per scendere, ma troppo alta per farla crescere ancora. In pochi giorni sta mostrando tutta la sua incertezza.
Anni, avevo impiegato anni per distruggere la fortezza che mi proteggeva solo per ritrovarmi prigioniera di altre pietre, altre mura. Rovine. I cocci di un passato che non è nemmeno il mio, ma ha invaso il mio giardino spegnendone ogni sfumatura. E spegnendo me. Perché so cosa succederà, è un copione già scritto, già visto, già vissuto. Il copione dell’animale braccato che sa di doversi nascondere. Aspettare che il pericolo passi nell’immobilità del letargo. E quindi mi spengo, mi metto in stand by. Non ho voglia di fare la guerriera, di cacciare le unghie, i denti e la voce grossa. Rinuncerò alle illusioni, ai sorrisi e alla spontaneità e se questo vorrà dire essere meno me stessa o non esserlo per niente rinuncerò anche a me.
Mi richiudo nel nido. Tra queste parole che oggi pesano più di ieri, che continuano a vorticarmi nella testa urlando «non è cambiato niente», e forse è vero, ma c’è tanta gente che vive bene nell’immobilità.
Ci farò l’abitudine anche io.
Qualcuno dice…